“Non può che concludersi in senso favorevole al ricorrente in primo grado, dal momento che né nel provvedimento impugnato né nel corso del giudizio l’Amministrazione ha evidenziato elementi, dai quali risulti il motivo per cui non sarebbe “opportuna” la concessione all’odierno appellato della cittadinanza italiana. Il mero riferimento, contenuto nel provvedimento stesso, ad una nota del Dipartimento della Pubblica Sicurezza non allegata all’atto né anche solo in parte ostesa in corso di causa, non consente invero in alcun modo all’interessato di conoscere le ragioni del diniego ed a questo Giudice di valutare l’attendibilità degli elementi posti a base del diniego medesimo.
In particolare “l’onere della prova gravante sul soggetto istante è riferito esclusivamente allo Stato o agli Stati con cui egli intrattenga o abbia intrattenuto rapporti significativi […]. Se, infatti, fosse riferito a tutti gli Stati del mondo determinerebbe una probatio diabolica, trattandosi di un fatto negativo assolutamente indeterminato”. È altrettanto pacifico che ai fini del riconoscimento dello status di apolide non è necessario un provvedimento formale di privazione della cittadinanza posseduta, ma sono sufficienti atti di rifiuto degli organi nazionali deputati ad accordare la tipica protezione spettante al cittadino.
Nello stesso senso si è espressa anche la giurisprudenza amministrativa e, a tal proposito, si riporta quanto affermato dal nella quale si legge “la protezione sussidiaria “condivide” con lo status di rifugiato, ai fini che in questa sede interessano, la sostanziale impossibilità di rientrare nel paese di origine, con ciò che ne consegue in termini di impossibilità di reperire e produrre la documentazione in originale richiesta ai fini della procedura di concessione della cittadinanza ai sensi della legge n. 91 del 1992. La possibilità di sostituire la certificazione proveniente dal paese di origine con un atto notorio trova, infatti, la sua ratio nella concreta situazione di pericolo cui il soggetto è esposto nel contatto con le autorità del paese di origine, situazione di pericolo che, salvo comprovato e motivato accertamento in senso contrario da parte della Pubblica Amministrazione, deve presumersi con riguardo allo straniero beneficiario della protezione sussidiaria”.
Ha affermato che la dichiarazione di inammissibilità generata prima dell’assegnazione del codice K10 debba essere letta come una pronuncia interlocutoria da parte della pubblica amministrazione a seguito della quale è necessario incardinare un contraddittorio e, pertanto, avente “natura non provvedimentale, in quanto sollecita l’interessato ad una collaborazione procedimentale, mediante l’inserimento di una nuova istanza (integrata), che consenta di superare il rilevato profilo ostativo”. Secondo il Collegio, quindi, la segnalazione da parte della PA della mancanza di un elemento necessario per la favorevole conclusione del procedimento costituirebbe una sorta di "avviso" del Portale informatico che avrebbe unicamente la funzione di attenzionare immediatamente all’istante le irregolarità relative alla formulazione dell'istanza ed alla completezza della documentazione da allegare e, di conseguenza, consentirgli di presentare, sin da subito, utilizzando la stessa documentazione non scaduta nonché il contributo e la marca da bollo già versati, una nuova istanza, priva di vizi. In sostanza, a parere del Consiglio di Stato, l’invito a completare e regolarizzare l'istanza, formulato dalla PA con la comunicazione oggetto di impugnativa, presenterebbe evidenti analogie con la comunicazione ai sensi dell’art. 10 bis l. 241/90.
“Ritenuto che, in base ai principi espressi nella suddetta decisione: - nel caso della presentazione della prima istanza, la declaratoria di inammissibilità per carenza documentale è giustificata in quanto induce il cittadino straniero ad “offrire il proprio apporto partecipativo, tendente a superare il rilievo, mediante la presentazione di una nuova istanza, integrata con gli elementi necessari a rappresentare all’amministrazione il possesso dei requisiti”;
Sebbene il termine fissato per la conclusione del procedimento di concessione della cittadinanza italiana non sia perentorio, questo “non comporta affatto, tuttavia, che la sua violazione sia priva di qualsivoglia conseguenza giuridica (...) Al contrario, va affermato che la condotta inerte o dilatoria dell’Amministrazione costituisce un fatto patologico anche a fronte di termini non perentori; fatto al quale l’Ordinamento impone che sia posto rimedio”.
“La residenza – recita l’art. 43 del c.c. – è nel luogo in cui la persona ha 11 la dimora abituale, senza alcun riferimento alla necessità di compiere l’ulteriore adempimento dell’iscrizione nei registri dell’anagrafe”.
Ha stabilito che, per effetto delle sentenze della Corte Costituzionale n. 87 del 1975 e n. 30 del 1983, “Riacquista la cittadinanza italiana dal 1° gennaio 1948, anche il figlio di donna nella situazione descritta, nato prima di tale data e nel vigore della legge n. 555 del 1912, determinando il rapporto di filiazione, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, la trasmissione a lui dello stato di cittadino, che gli sarebbe spettato di diritto senza la legge discriminatoria” Dunque, per le Sezioni Unite della Cassazione, lo stato di cittadinanza deve essere riconosciuto anche al/la figlio/a di madre cittadina nato/a prima dell’entrata in vigore della Costituzione e quindi anche prima del 1948.
“Con riguardo al requisito della residenza deve superarsi il dato meramente anagrafico e farsi invece riferimento alla dimora stabile dell’interessato (…); tenuto conto […] la sua mancata iscrizione relativa alla residenza anagrafica è dipesa solo ed esclusivamente dal comportamento omissivo dei genitori, titolari della potestà genitoriale e quindi soggetti cui competeva in via esclusiva provvedere alla tutela dell’interesse del figlio alla regolarizzazione sul territorio dello Stato.”
L’art. 10 del D.lgs. 30/2007 prevede che “I familiari del cittadino dell'Unione non aventi la cittadinanza di uno Stato membro, di cui all'articolo 2, trascorsi tre mesi dall'ingresso nel territorio nazionale, richiedono alla questura competente per territorio di residenza la "Carta di soggiorno di familiare di un cittadino dell'Unione"”